22 novembre Santa Cecilia

Santa Cecilia, martire del III secolo d.C. patrona di musicisti e cantanti, è protagonista della tavola dipinta da un seguace di Giotto di inizio Trecento, Assisa in trono, con la palma del martirio e il libro sacro, è circondata da 8 storie della sua vita.

Cecilia, nata da una nobile famiglia a Roma, sposò il nobile Valeriano. Si narra che il giorno delle nozze nella casa di Cecilia risuonassero organi e lieti canti ai quali la vergine, accompagnandosi, cantava nel suo cuore: “conserva o Signore immacolati il mio cuore e il mio corpo, affinché non resti confusa”. Da questo particolare è stato tratto il vanto di protettrice dei musicanti. Confidato allo sposo il suo voto, egli si convertì al cristianesimo e nella prima notte di nozze ricevette il battesimo per mano del pontefice Urbano I. Tornato nella propria casa, Valeriano vide Cecilia prostrata nella preghiera con un giovane: era l’angelo che da sempre vegliava su di lei. Insospettito, chiese una prova dell’effettiva natura angelica di quel giovinetto: questi, allora, fece apparire due corone di fiori e le pose sul capo dei due sposi. Ormai credente convinto, Valeriano pregò che anche il fratello Tiburzio ricevesse la stessa grazia e così fu.

Il giudice Almachio aveva proibito, tra le altre cose, di seppellire i cadaveri dei cristiani, ma i due fratelli convertiti alla fede si dedicavano alla sepoltura di tutti i poveri corpi che incontravano lungo la loro strada. Vennero così arrestati e dopo aver redento l’ufficiale Massimo che aveva il compito di condurli in carcere, sopportarono atroci torture piuttosto che rinnegare Dio e vennero poi decapitati. Cecilia pregò sulla tomba del marito, del cognato e di Massimo (tutti e tre santi venerati il 14 aprile)[1], anch’egli ucciso perché divenuto cristiano, ma poco dopo venne chiamata davanti al giudice Almachio che ne ordinò la morte per bruciatura, ma si narra che “la Santa invece di morire cantava lodi al Signore”. Convertita la pena per asfissia in morte per decapitazione, il carnefice vibrò i tre colpi legali (era il “contratto” dei boia per ogni uccisione) ma Cecilia non morì, restando agonizzante per tre giorni. Fu papa Urbano I, sua guida spirituale, a renderle la degna sepoltura nelle catacombe di San Callisto.

La Legenda Aurea narra che papa Urbano I, che aveva convertito il marito di lei Valeriano ed era stato testimone del martirio, «seppellì il corpo di Cecilia tra quelli dei vescovi e consacrò la sua casa trasformandola in una chiesa, così come gli aveva chiesto»

Il Paradiso – Dante 2021 – Terza Conversazione

Giovedì 7 ottobre alle ore 20:30 termineranno le Conversazioni sulla Divina Commedia a cura di Marina Gelmetti con la collaborazione di Margò Volo.
Nel frattempo inseriamo qui i testi riguardanti questa conversazione e il video Tracce di Paradiso trasmesso il 2 giugno scorso.
Parte del commento e della rectiazione dei Canti del Paradiso dantesco sarà inserito in quest’articolo del blog a breve, come già è stato fatto per la prima e la seconda conversazione che potrete ritrovare sempre su questo blog.

Nel frattempo potete scaricare i testi di questa Conversazione sul Paradiso e guardare il video qui sotto caricato. Buona lettura e buona visione!

Sulle tracce di Orfeo progetto WKO-ADA 2021

Orfeo (gr. ᾿Ορϕεύς, lat. Orpheus; etimologia discussa, forse da una radice comune al gr. ὀρϕανός e lat. orbus, con un significato di “solitudine”, “privazione”, che ricorre in nomi e termini aventi riferimento agli inferi)

Personaggio della mitologia greca, figlio di Eagro (Οἴαγρος, il “solitario agreste”), e di una delle Muse (Polinnia o Calliope), cantore che piega al suono della sua lira gli animali e tutta la natura. I due miti salienti legati alla sua figura sono quello della katàbasis (discesa agli inferi) che egli compie per riportare in vita la sposa morta, Euridice, e quello della morte avvenuta per sbranamento da parte delle mènadi. Entrambi i miti hanno varianti: secondo una versione Orfeo sarebbe riuscito a riportare Euridice dagli inferi, mentre secondo quella diventata classica, pur avendo persuaso con il suo canto le divinità infere, sarebbe fallito nell’impresa, per aver violato la condizione di non voltarsi indietro lungo il percorso verso la terra in cui doveva precedere la donna; quanto alla morte, essa viene attribuita anche al fulmine di Zeus.

Mentre questi due miti non sono esclusivamente suoi (sia discese negli inferi sia morti per sbranamento o per fulmine si riscontrano in miti di altri eroi), Orfeo appare coinvolto, probabilmente in modo secondario, anche in altri miti (per es., egli partecipa all’impresa argonautica). Originaria sembra invece la localizzazione del personaggio nella Tracia, centro di diffusione di movimenti religiosi a carattere mistico-orgiastico confluiti nel culto dionisiaco e, appunto, nel cosiddetto orfismo. Infatti, l’importanza della figura mitica di Orfeo non si fonda tanto sui racconti variamente modellati nella tradizione poetica, quanto sul fatto che egli era il prototipo mitico di coloro che aderivano al movimento religioso che oggi chiamiamo orfismo; egli ne sarebbe stato il fondatore e autore di vari scritti “teologici” che andavano sotto il suo nome. Sullo sfondo di quel poco che si conosce intorno a questo movimento, acquistano però un significato particolare anche i miti menzionati: la preoccupazione orfica per l’immortalità spiega, almeno in parte, la katàbasis di Orfeo, mentre lo sbranamento del fondatore trova un singolare riscontro nella versione orfica della morte di Dioniso Zagreo, fanciullo divino sbranato dai Titani (ma in origine, più probabilmente, dalle mènadi). Solo una più precisa conoscenza dell’orfismo, delle sue origini, della sua consistenza come movimento e del suo vero indirizzo, permetterebbe di valutare gli elementi del mito, distinguendo quelli più antichi da quelli più recenti, quelli d’origine sacra da quelli poetici. Così, per es., i rapporti di Orfeo con Apollo che figura anche come suo padre e che come dio della lira gli è vicino, appaiono (per es., nella versione eschilea del mito) in contrasto con il culto di Dioniso cui Orfeo si sarebbe opposto; mentre d’altra parte sia il mito di Orfeo sia l’orfismo presentano elementi indubbiamente dionisiaci. Non bisogna però dimenticare che Apollo e Dioniso nella realtà religiosa greca non erano in contrasto, e a Delfi erano venerati insieme; secondo una leggenda antica la testa di Orfeo ucciso, insieme con la lira, avrebbe raggiunto, trasportata dalle onde del mare, l’isola di Lesbo, dove la testa dava oracoli in un tempio di Dioniso, mentre la lira era conservata nel tempio di Apollo. Nel 4° sec. a. C., con le nuove tendenze razionalistiche, si cominciò a dissentire sulla personalità di Orfeo e a negare (con Aristotele) la sua esistenza.

Bassorilievo in marmo di epoca romana, copia di originale greco del 410 a.C., che rappresenta Ermes, Euridice e Orfeo. L’opera originale, probabilmente di Alcamene, è andata perduta. Questo bassorilievo, conservato presso il Museo archeologico di Napoli, è tra le testimonianze che attesterebbero l’esito negativo della catabasi di Orfeo già a partire dal V secolo a.C. Qui Orfeo voltatosi verso Euridice, le alza il velo, forse per verificare l’identità della donna e quindi la perde. Secondo l’opinione di Cristopher Riedweg sarebbe infatti evidente che Ermes a questo punto trattenga per un braccio la sposa di Orfeo, che volge quindi il piede destro per tornare indietro.

La letteratura ellenistica e l’arte figurativa trattarono il mito di Orfeo sempre più liberamente, e i Romani lo derivarono dagli alessandrini: si ricordino la descrizione nelle Metamorfosi di Ovidio e l’episodio finale del 4° libro delle Georgiche di Virgilio.

L’arte della tarda antichità ha prediletto il motivo di Orfeo che ammansisce le fiere (noto fin dal 1° sec., ma diffuso specialmente fra il 3° e il 6°), che fu adottato anche dall’arte cristiana, con varie implicazioni allegoriche (fra le quali quella del buon pastore). Nell’arte moderna il mito di Orfeo fu numerose volte soggetto di quadri e sculture. Tra i primi vanno ricordati alcuni chiaroscuri di Mantegna nella sala degli Sposi nel castello ducale di Mantova (con la punizione di Orfeo, tema che ricorre anche in taluni cassoni nuziali fiorentini), l’Orfeo di G. Bellini (collez. Widener, Filadelfia), i disegni di Leonardo per le scene della favola di Orfeo che doveva rappresentarsi a Mantova, diversi piatti di Casteldurante, di Urbino e di altri centri, la statua di P. Francavilla, e poi dipinti di D. Dosso, del Tintoretto, Rubens, Bruegel il giovane, N. Poussin, Corot, Delacroix, Spadini, i bozzetti di scena e il film di J. Cocteau, il film di M. Camus ecc.

Via via la rievocazione della storia di Orfeo ha assunto vari significati, da quello etico-pratico delle prime raffigurazioni del Rinascimento, all’espressione del dominio dell’arte sugli istinti animali, e, in direzione opposta, all’enunciazione della nullità della poesia di fronte all’avversione del destino, o della estraneità della poesia dal mondo.

Il mito di Orfeo, nelle letterature moderne, fu celebrato da A. Poliziano nella Favola di Orfeo (1480) – dalla quale è tratto il libretto (di A. Striggio) della favola in musica Orfeo (1607), di C. Monteverdi -, da Lope de Vega nella commedia El marido más firme (1625), da Calderón de la Barca nell’auto El divino Orfeo (1663). Nel sec. 20° il mito di Orfeo è stato più volte rielaborato da J. Cocteau, nel teatro (con la tragedia Orphée, 1927) come nel cinema (Orphée, 1950; Le testament d’Orphée, 1960).

Tra le opere musicali, oltre a quella di Monteverdi, vanno ricordate: La morte di Orfeo (1619) di S. Landi; Orfeo (1647) di L. Rossi; Orfeo e Euridice (1762, su versi di R. Calzabigi) di Chr. W. Gluck; L’anima del filosofo (Orfeo e Euridice) (1791 circa, ma rappresentato solo nel 1951 a Firenze) di F. J. Haydn; il poema sinfonico Orpheus (1854) di F. Liszt; l’opera comica Orphée aux Enfers (1858) di J. Offenbach; il mimodramma Orphée (1913; rappresentato 1926) di J. Roger-Ducasse; Orpheus und Eurydike (1926) di E. Křenek; il dramma musicale Orfeu da Conceição (1956) di V. de Moraes, da cui fu tratto il film Orfeu negro (1959) di M. Camus.

Grazie a Loris Falconi, Paola Cassella e Paola Lomi per le loro splendide conversazioni che ci hanno permesso di accostarci in modi diversi e interessanti alla figura di Orfeo.

Qui sotto il video del laboratorio sperimentale svoltosi sull’isola di Samotracia nella prima settimana di agosto 2021, a cura dei nostri cari coreografi e ballerini Bruna Gondoni e Marco Bendoni. lab che ha prodotto questa bella performance, amatoriale, intensa. Hanno partecipato al laboratorio anche il soprano Laura Antonaz e l’attrice Margò Volo che hanno contribuito ad arricchire professionalmente questo quasi-spettacolo.
Ringrazio inoltre Paola Lomi con Luigi Bessi e Carlota Marañon per la sempre preziosa e generosa collaborazione, Emilio Bezzi per la sua messa a disposizione della “Fantasia” di Francesco da Milano al liuto, Gaia Gottin per l’attento e curato reportage fotografico, insieme a tutti i partecipanti gentili per aver reso possibile questa esperienza in un’isola che anno dopo anno ci accoglie con così tanta bellezza ed energia. Buona visione!

Danzare il Medioevo…

Come, cosa? E’ possibile ricostruire una coreografia o meglio reinventarla?
Con il M° Enrica Sabatini, che è anche danzatrice, si sono affrontati questi temi. Dunque ipotesi coreografiche per danzare il Medioevo: questo ci è sembrato il corretto approccio per cimentarsi in questa disciplina di questo periodo storico, almeno per ora…
Ne è venuto fuori un lavoro d’équipe con il gruppo WKO-ADA Montefeltro, sotto la guida e supervisione di Enrica Sabatini che ha creato appositamente delle coreografie originali, lavorando sulle interpretazioni musicali del periodo medievale, traendo spunto dalle sue prassi esecutive e dalle fonti iconografiche e letterarie, nonché dalle vidas dei trovatori, salvo qualche fonte coreutica dei processionali e inni alla Vergine.
I primi trattati di danza appariranno, infatti, ai primi del Quattrocento con Domenico da Piacenza, maestro del famoso Guglielmo Ebreo da Pesaro, che nasce alla fine del Trecento e che dal tardo medioevo proporranno, con la visione umanistica, un nuovo modo di danzare. Di questo ci parlerà la prof.ssa Cecilia Nocilli il 24 agosto a Gradara prima dello spettacolo.
E insieme a Dante, Guinizzelli e Cavalcanti che ci hanno regalato le forme poetiche e musicali del sonetto, canzone e ballata e naturalmente con le danze citate dal Sommo nella Divina Commedia, ne è venuto fuori l’evento “Dante a Gradara” che propponiamo martedì 24 agosto 2021 alla Rocca di Gradara.
Qui i dettagli: http://www.danzeantiche.org/dante-a-gradara-17-e-24-agosto-2021/

Bestiario medievale


I BESTIARI MEDIEVALI – Griffin – detail of a miniature from the Rochester Bestiary, BL Royal 12 F xiii

Innanzitutto, per capire l’iconografia medievale riguardante gli animali, dobbiamo partire da un brano di Michel Pastoureau:

A differenza di quanto generalmente si creda, gli uomini del Medioevo sapevano osservare assai bene la fauna e la flora, ma non pensavano affatto che ciò avesse un rapporto con il sapere, né che potesse condurre alla verità. Quest’ultima non rientra nel campo della fisica, ma della metafisica: il reale è una cosa, il vero un’altra, diversa. Allo stesso modo, artisti e illustratori sarebbero stati perfettamente in grado di raffigurare gli animali in maniera realistica, eppure iniziarono a farlo solo al termine del Medioevo. Dal loro punto di vista, infatti, le rappresentazioni convenzionali – quelle che si vedono nei bestiari miniati – erano più importanti e veritiere di quelle naturalistiche. Per la cultura medievale, preciso non significa vero.

Per comprendere l’iconografia medievale, dunque, dobbiamo considerare il rapporto tra l’uomo di quel tempo e la natura. La realtà fisica della natura non era considerata dal punto di vista estetico o scientifico, ma veniva vista e pensata, compresa e assimilata in rapporto con la dimensione spirituale. Se già San Paolo, nelle sue epistole, aveva affermato che il mondo terreno è lo specchio della volontà divina, è Ugo di San Vittore che nel De tribus diebus (1123) afferma esplicitamente che “questo mondo sensibile è quasi un libro scritto dal dito di Dio”. La natura, dunque, è una sorta di testo cifrato, in cui ogni elemento è signum, cioè simbolo che allude ad “altro”, a verità spirituali e religiose, una sorta di Sacra Scrittura redatta in un linguaggio diverso dalle parole.
Continua la lettura al seguente link: https://www.milanoplatinum.com/i-bestiari-medievali.html


“Il Leopardo” dal bestiario duecentesco di Rochester

Un bestiario, o bestiarium, è un testo che descrive gli animali o bestie. Nel Medioevo si trattava di una particolare categoria di libri che raccoglievano brevi descrizioni di animali (reali e immaginari), accompagnate da spiegazioni moralizzanti e riferimenti tratti dalla Bibbia. Altre raccolte, simili per l’impostazione ma di diverso argomento, sono i lapidari (i quali mostravano le proprietà delle rocce e dei minerali) e gli erbari (spesso di carattere medico), che descrivevano le virtù delle piante. (spesso di carattere medico), che descrivevano le virtù delle piante.

L’origine remota di questi testi, che oggi hanno importanza più che altro storica, è da ricercarsi, per il mondo occidentale, in antichi testi come l’opera greca Il Fisiologo (cioè lo studioso della natura) che offriva l’interpretazione degli animali e delle loro caratteristiche in chiave simbolica e religiosa (quindi, per esempio, il leone, re degli animali, è associato a Cristo). Il testo fu tradotto anche in latino e nel corso della storia si è arricchito di dettagli ed immagini sviluppandosi nei bestiari veri e propri. Altre fonti sono invece da ricercare in autori latini tra cui Plinio il Vecchio, Solino, sant’Ambrogio. Benché normalmente incluse nel testo dei bestiari le sezioni sugli uccelli possono, in qualche caso, essere estrapolate e conservate in manoscritti i cui testi sono detti aviarii.

I bestiari si diffusero soprattutto tra Francia e Inghilterra nel XIII-XIV secolo anche se non mancano testimonianze posteriori tuttavia molto inferiori dal punto di vista della realizzazione artistica. Un aspetto molto importante per la miniatura medievale è la presenza di ricchi cicli di illustrazioni, sia per quanto riguarda gli animali (quadrupedi, pesci od uccelli), sia per quanto riguarda temi più direttamente attinenti alla religione (storia della creazione degli animali dal libro della Genesi).

Tra i bestiari decorati più importanti si segnalano: Bestiario di Aberdeen (MS 24), preparato in Inghilterra nel XIII secolo, conservato nella Biblioteca dell’Università di Aberdeen; MS Ashmole 1511, della Bodleian Library di Oxford (strettamente imparentato al precedente).
Un tipo particolare di bestiario di origine alto-medievale (VIII secolo) contenente animali esclusivamente fantastici o creature mostruose è il Liber monstrorum de diversis generibus (libro dei diversi generi di mostri). In questo caso manca la volontà di moralizzazione in favore del tentativo di stupire i lettori con mirabilia per lo più provenienti da autori latini classici. Non mancano tuttavia esposizioni su casi teratologici. Anche questo testo è stato accompagnato da disegni. Le stesse tre fiere (lonza, lupa, leone) che Dante Alighieri incontra nell’Inferno (Inferno – Canto primo) s’inseriscono in questa concezione culturale.

I bestiari sono inoltre le fonti per le rappresentazioni didattico-moraleggianti di animali nella scultura romanica e nella scultura gotica. Ad esempio nella lupa si vedeva la cupidigia, nel drago il peccato, nella sirena (ibrido donna-pesce) le tentazioni, nel centauro l’eresia, nella scimmia la lussuria, nel gatto la vanità, nel cane la fedeltà, nell’unicorno la purezza. L’ammonimento contenuto in questi bestiari è di rinunciare ai vizi e di perseguire le virtù.[

Dante – Purgatorio – II Conversazione

Si è tenuta il 2 giugno 2021 la seconda Conversazione del ciclo dedicato a Dante: “Oscurità e Luce, Grida e Canto, Movimento e Danza” nella Divina Commedia, a cura di Marina Gelmetti, voce recitante Margò Volo. Ringraziamo di cuore la prof.ssa Marina Gelmetti e l’attrice Margò Volo per questa preziosa opportunità.

Qui sotto i testi che sono stati in parte oggetto della Conversazione e che potete scaricare online e il video presentato alla fine della Conversazione.

Qui sotto potete scaricare l’audio della seconda Conversazione, suddiviso in tre parti: buon ascolto!



A PASSO di DANZA… per CARATE: sulle tracce di TRACCE di SOFIA FUOCO

Domenica 6 giugno l’Associazione Sentiero dei Sogni inaugura un nuovo filone delle sue Passeggiate Creative, dedicato alla danza e ai suoi grandi personaggi vissuti sul Lago di Como.
A PASSO DI DANZA… PER CARATE : SULLE TRACCE DI SOFIA FUOCO è dedicato alla grande ballerina dell’800, celebre anche per la sua attività caritativa.
ore 10.30 incontro sul sagrato del Santuario di S.Marta dove si trova l’ex mausoleo della famiglia Fuoco.
visita a S.Marta, discesa lungo il viale delle cappelline del Rosario, visita alla parrocchiale S.Maria Assunta di Carate e alla sacrestia, dove si trova la lapide dedicata alla ballerina.
Per finire ci si reca a Villa Fuoco, poco distante, con visione degli esterni.
Termine per le 12.30
Costo: 12 euro a persona
Ridotto 9,50 per:
minori di 14 anni (accompagnati da un adulto),
soci Sentiero dei Sogni.
Prenotazione obbligatoria cell. 320.3551711, mail gigliola.foglia64@gmail.com

Maria Brambilla nacque a Milano. Iniziò a studiare danza classica con Carlo Blasis nel 1837 e in seguito divenne una delle sue cosiddette Pleiadi. Nel 1839 all’età di nove anni fece il suo debutto sul palcoscenico al Teatro alla Scala. Il suo nome d’arte deriva dal cognome da nubile della madre e fu dettato dalla presenza di più “Maria Brambilla” nella scuola di danza.

Nel 1843, a soli 13 anni, fu nominata prima ballerina assoluta del teatro. Nello stesso anno, fu la prima a ballare Giselle a Milano. Nel 1846 ballò nel Pas de Quatre di Perrot alla Scala diretta da Filippo Taglioni.

In 1846, all’età di sedici anni, fu invitata dal Paris National Theatre per sostituire Carlotta Grisi. Il coreografo Joseph Mazilier stava per mettere in scena la nuova opera Betty con la Grisi ma la ballerina aveva già firmato un contratto con il Roman Apollo Theater. La stampa parigina iniziò a discutere la sorprendente tecnica e le pirouette della Fuoco prima ancora della sua prima performance alla Salle Le Peletier.

Impressionò il pubblico più per la sua solida tecnica classica che per la sua recitazione. Grazie al suo eccezionale lavoro sulle punte venne chiamata La Pointue a Parigi. Secondo Théophile Gautier «i suoi piedi volavano sul pavimento come frecce d’acciaio».

Fuoco fu solista al Paris Opera Ballet fino al 1850. Tra il 1847 e il 1848 si esibì a Londra. All’inizio degli anni cinquanta dell’Ottocento, fu ballerina principale del Teatro del Circo di Madrid. Lì rivaleggiò con Marie Guy-Stéphan, favorita del Marchese di Salamanca. Quando la Fuoco diventò la ballerina preferita del generale Narvaez, la rivalità scenica sfociò in scontro politico. I sostenitori del Marchese di Salamanca (e della Guy-Stéphan) dimostravano la propria opinione indossando all’occhiello garofani bianchi, mentre i sostenitori del governo (e della Fuoco) portavano garofani rossi, con le donne che sfoggiavano un’acconciatura à la Fuoco.

Nel 1852 danzava al Teatro Argentina di Roma. Per la fine degli anni cinquanta si ritirò dalle scene.

Sofia Fuoco, la divina di Angelo Emiliano

   Per Sofia Fuoco i faentini persero letteralmente la testa. La celebre ballerina venne in città due volte, nel 1853 e tre anni dopo, suscitando una sorta di pazzia collettiva tanto erano grandi l’ammirazione e l’entusiasmo. Dietro quel nome d’arte si celava la milanese Maria Brambilla. Era nata nel 1830 e i suoi progressi nella danza ebbero del prodigioso. Allieva del napoletano Carlo Blasis, considerato fra i massimi teorici del balletto, a nove anni già aveva un posto in palcoscenico e a 13 esordì come prima ballerina nientemeno che alla Scala. Pur non gradendo la rappresentazione – il Don Fabio di Serafini – l’autorevole critico della «Gazzetta privilegiata di Milano» le riservò un giudizio lusinghiero, giustificando gli spettatori rimasti in sala «per vedere quel demonietto trasfigurato in paggio, quella cara Fuoco che rende dilettevole la scena co’ suoi vezzi e la sua vispa giocondità». Pochi mesi dopo, sempre nel 1843, Sofia Fuoco entrò a far parte del complesso che riuniva gli allievi di maggior talento di Blasis, le Pleiadi.

L’anno seguente danzò con le artiste più rinomate del tempo e nel luglio 1846, a soli 16 anni, riscosse un successo enorme di pubblico e di critica all’Opera di Parigi. Nel 1847 si esibì al Covent Garden di Londra e nel 1848 a Madrid dove, oltre a farsi ammirare per le straordinarie doti artistiche, si fece amare per la generosa donazione alla Casa dei trovatelli (farà la stessa cosa a Faenza, destinando l’intero suo compenso della serata del 3 luglio 1856 agli «orfani del Choléra».
Poi una marcia trionfale attraverso i maggiori e più celebrati teatri d’Europa, suscitando ovunque «acclamazioni fin quasi al fanatismo».
Le trattative per averla a Faenza in occasione del grandi festeggiamenti di San Pietro del 1853 furono avviati per tempo fra il gonfaloniere Giuseppe Tampieri e l’Agenzia teatrale del bolognese Ercole Tinti. Gli accordi prevedevano che, oltre a due opere liriche, il cartellone comprendesse appunto il Divertissement danzante della Fuoco. La celebre artista sarebbe arrivata in città verso la fine di giugno assieme al primo ballerino Dario Fissi e a otto coppie di «grandi ballerini di mezzo carattere». Poi le cose si complicarono, da Faenza si ebbe l’impressione che l’amministratore dell’impresario intendesse fare il furbo e si rese necessario ridiscutere i termini dell’accordo. Fu lo stesso Tinti a garantire magnificando i successi della sua primadonna. «Ogni serata della Fuoco – scrisse il 22 maggio a Tampieri – fu una vera solennità. In primo luogo 2.500 franchi di incasso, corone, fiori, biografia, bouquet, regali e dopo il teatro la Banda con una magnifica serenata». II costo degli spettacoli era però salatissimo: duemila scudi romani «metallici», ovvero in oro o argento.II compenso previsto per Sofia Fuoco era di 768 scudi per otto rappresentazioni, oltre a meta del ricavato di una beneficiata (una serata in suo onore) e il rimborso delle spese di viaggio e di alloggio. Per farsi un’idea di cosa volesse dire, basti sapere che il compenso del primo ballerino, il Fissi, era previsto in 85 scudi e rotti e quello del coreografo, coadiuvato dal figlio, in 112. 

Ma nessuno in città ebbe da ridire sulla spesa: la Fuoco portò in scena Gisella e fu un trionfo senza precedenti. Ci fu chi commentò: «Le gambe, il corpo, le movenze della bellissima ballerina portarono una vera rivoluzione nel sangue e nel cuore dei giovani e dei meno giovani».
E altri: «Sofia Fuoco, la danzatrice dalla grazia affascinante, scosse il pubblico da quel letargo in cui era caduto e tanto lo entusiasmò che non si possono descrivere le dimostrazioni continue e crescenti. Pareva che tutti impazzissero ad ogni mossa. L’entusiasmo toccò il delirio». Tre anni dopo, come s’e detto, la Fuoco tornò. A prendere i necessari accordi per conto del Comune fu il conte Scipione Pasolini Zanelli. Anche in quest’ occasione qualcosa non andò per il verso giusto, tanto che l’impresario Antonio Pieraccini pretese di trattare con l’amministratore della sagra di San Pietro, Giuseppe Vespignani. Questa volta i compensi – perlomeno quelli inizialmente pattuiti – erano meno sproporzionati: 480 scudi per Sofia Fuoco e 300 per Dario Fissi ancora nel ruolo di primo ballerino. Non conosciamo però il numero delle rappresentazioni. Le opere in programma erano gli autentici cavalli di battaglia del’ etoile: La figlia del bandito di Perrot, Caterina e Le nozze di Ninetta con Nane.
Puntualmente si ripeterono le scene di esaltazione collettiva. «I faentini – ha scritto Piero Zama in “Addio vecchia Faenza” – parevano diventati matti, tutte le faentine erano diventate gelose». Persino uomini noti per i severi studi letterari e linguistici investirono il loro sapere in rime e sonetti sognanti dedicati alla bellezza e alla grazia dell’insuperabile artista.
Alla Fuoco era stata riservata un’elegante stanza nell’antico palazzo in angolo fra via Torricelli e via Manfredi. Qui ella si ritirava dopo gli spettacoli, dati ovviamente in Teatro (che ancora non aveva preso il nome del tenore Arcangelo Masini).

Sui muri della città, in tutte le strade, scritte osannanti consegnavano ai posteri il trasporto senza freni di giovanotti ed uomini maturi. Ci fu chi scrisse «Sofia più che mortal, fuoco divino!», ma quelli erano tempi in cui mischiare i santi coi fanti non era consentito. Quel «divino» ben presto scomparve sotto le pennellate della censura.

    Lasciamo ancora che sia Piero Zama a raccontare come andarono le cose la notte del 6 luglio 1856. «Dopo una recita che aveva segnato un particolare trionfo, Sofia Fuoco fu accompagnata dal popolo fino alla sua dimora, fra applausi scroscianti, al chiarore di fiaccole. E la carrozza era tirata e sospinta da innumerevoli adoratori. Dal piccolo balcone, chiamata, applaudita, Sofia si affacciò più volte, ringraziando e reverendo.
Ma giù gli ammiratori non si stancavano mai di rivolgere dichiarazioni, di gridare gli evviva, di cantare, di suonare le parole e le musiche che soltanto l’amore pazzo è capace di fabbricare, soprattutto nelle ore notturne. Impazientita di non poter dormire, Sofia Fuoco discese ancora una volta dal letto: cercò per un momento, trovò quello che, non ancora usato, cercava ed aperta la finestra lo tiro sugli ammiratori: i quali, lungi dal prendere spavento o dall’aversene a male, si gettarono con furia sui cocci, fieri di possedere almeno uno di quegli intimi amuleti. Ci fu chi lo tenne in serbo fino all’ora della morte».


Addio a Carla Fracci: la regina della danza italiana

E’ morta oggi 27 maggio 2021, a Milano, Carla Fracci. Avrebbe compiuto 85 anni il prossimo 20 agosto.  ‘Una figura storica e leggendaria, che ha lasciato un segno fortissimo’, così la ricorda il teatro alla Scala di Milano. Il presidente della Repubblica Mattarella: ‘Ha onorato il Paese con la sua eleganza e il suo impegno artistico, frutto di intenso lavoro’.

La camera ardente di Carla Fracci sarà allestita nel foyer del teatro alla Scala di Milano, venerdì dalle 10:30 alle 18. “E’ una cosa che è stata fatta pochissime volte”, ha spiegato il sovrintendente Dominique Meyer. Cosa rara “ma trattandosi di Carla Fracci…” ha quindi aggiunto, sottolineando che “è stata la ballerina più importante del teatro degli ultimi cento anni, ma anche una stella importantissima nella danza internazionale”. 

Carla Fracci, la regina della danza italiana. Nata nel 1936 a Milano, costruì la parte centrale della sua carriera studiando nella scuola di ballo della Scala, di cui poi ne diventò étoile. Al teatro era rimasta (con qualche alto e basso) sempre legata, tanto che il 28 e 29 gennaio scorso aveva tenuto una masterclass con i protagonisti del balletto Giselle andata in streaming sui profili della Scala e disponibile anche su Raiplay. Del 1955 il suo debutto sul palco del Piermarini che era stato un trampolino per i teatri più famosi del mondo.

Figlia di un tramviere, cominciò a danzare a 10 anni alla scuola della Scala e ha tra i maestri Vera Volkova, diplomandosi nel 1954 e diventando, seguiti alcuni stage internazionali, prima ballerina tre anni dopo. Eppure l’inizio fu “per caso, su suggerimento di una coppia di amici dei genitori, che avevano un parente orchestrale appunto alla Scala di Milano. All’inizio non capivo il senso degli esercizi ripetuti, del sacrificio, dell’impegno totale mentale e fisico sino al dito mignolo” come raccontava, riferendosi al giorno in cui, affascinata dalla danza di Margot Fonteyn, aveva visto in una pausa il coreografo avvicinarsi e correggerle la posizione appunto del dito mignolo.

Fino agli anni ’70 aveva danzato con varie compagnie straniere, dal London Festival Ballet al Royal Ballet, dallo Stuttgart Ballet al Royal Swedish Ballet, essendo dal 1967 artista ospite dell’American Ballet Theatre. Dagli anni ’80 diresse il corpo di ballo del San Carlo, poi dell’Arena di Verona, infine dell’Opera di Roma, dove era rimasta sino al 2010, fedele anche alla amata attività didattica, di attenzione alle giovani leve. 
La sua notorietà artistica si legava principalmente alle interpretazioni di ruoli romantici come Giulietta, Swanilda, Francesca da Rimini e soprattutto Giselle, cui aveva dato una moderna impronta personale, con i capelli sciolti e un leggerissimo tutù, danzandola con compagni di gran fama, anche se era quella con Erik Bruhn a essere rimasta indimenticabile, tanto che nel 1969 ne venne realizzato un film. Al suo fianco grandi partner sono stati Rudolf Nureyev, Vladimir Vasiliev, Henning Kronstam, Mikhail Baryshnikov, Amedeo Amodio, Paolo Bortoluzzi.

Una fama sempre crescente, una grande popolarità sempre viva. Non è un caso che a lei dedicò una poesia Eugenio Montale, ‘La danzatrice stanca’, e ancora la fermavano per strada non più per un autografo, ma per un selfie, cui non si sottraeva, sempre presente al suo tempo, piena di vitalità e spirito.

Qui Carla Fracci col Maestro Venditti.

Mantova Festa a Corte, Gala in onore di Margot Fonteyn, coreografie di Andrea Francalanci

13 maggio 2021 Ascensio-Analepsis-Salita

Un grazie a questi artisti (e soci): Davide, Maria, Laura e Antonietta, che ci hanno regalato queste bellissime esecuzioni per l’Ascensione e segnalato questa antica tradizione veneziana in cui in questo misterioso giorno, Venezia sposa il mare…

Qui riportiamo il passo di Luca, l’unico degli evangelisti che descriva questa prodigiosa salita al cielo.

« Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e fu portato verso il cielo.
Ed essi, dopo averlo adorato, tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio. »  
(Luca 24,50-53)

L’Ascensione di Gesù. Questa sonata è stata registrata da ARPARLA nel maggio 2021, durante la pandemia COVID-19. Questa sonata, come quasi tutte le sonate del Rosario (escluse le sonate n. 1 e 16), utilizza un’accordatura a scordatura, che in questo caso è: C4-E4-G4-C5.

Per l’altra Ascensione, quella della Vergine (che si festeggia il 15 agosto), ecco Antonio Vivaldi Ascende laeta, RV 635: Aria: Ascende laeta · Laura Antonaz

E il 13 maggio Venezia sposa il mare…
EA FESTA DEA SENSA dall.’anno 1000 si ripete ogni anno questa celebrazione nella laguna veneziana

La  Festa della Sensa  si festeggia tuttora. Ancora oggi, il Sindaco della città, nel giorno dell’Ascensione raggiunge, a bordo del Piccolo Bucintoro usato durante la Regata Storica, la bocca di Porto e secondo la tradizione, affiancato dalle Società della voga veneziane, getta nella laguna la vera d’oro ( la fede nuziale ).

La festa religiosa dell’Ascensione in dialetto “Sensa” si celebrava a Venezia con un cerimoniale il cui momento più spettacolare, e al tempo stesso più pregnante dal punto di vista della liturgia civica, era il rito nel corso del quale il doge, nella sua veste di suprema incarnazione dello stato veneziano, si univa in simbolico matrimonio con il mare. Il programma, così come si era definitivamente fissato nel secolo XV, prevedeva per il mattino del giorno dell’Ascensione una messa solenne in San Marco quindi il corteo dogale saliva sull’imbarcazione di rappresentanza, il Bucintoro *, per dirigersi verso il Lido. Al momento dell’imbarco il doge riceveva l’omaggio dei rappresentanti di due comunità popolari, i Nicolotti gli abitanti cioè della contrada di San Nicola dei Mendicoli, composta per lo più di pescatori  e i Povegiotti, gli isolani di Poveglia : la loro presenza e quella degli Arsenalotti, che sedevano in  Bucintoro accanto al doge nel corteo acqueo, voleva significare che anche ai ceti più umili si garantivano uno spazio e un ruolo onorifico  giusto riconoscimento del contributo da loro arrecato al buon funzionamento della società veneziana  nei rituali civico-religiosi della Repubblica.Accompagnato dal canto dei canonici di San Marco a bordo del Bucintoro, il patriarca compiva un giro con il suo piato ( un imbarcazione apposita ) intorno all’imbarcazione dogale e benediceva il doge e le acque della laguna, usando un ramo di olivo come aspersorio. All’uscita in mare a San Nicola di Lido,aveva luogo una seconda benedizione, quella delle acque marine, finita la quale il patriarca versava in mare il residuo di acqua benedetta :  a questo punto il doge gettava a sua volta in mare un anello  pronunciando le parole ”  In signum veri perpetuique dominii “precedute, secondo alcune fonti, dalla dichiarazione “Desponsamus te Mare”. Secondo una tradizione profondamente radicata a Venezia fin dal XIII secolo,   la cerimonia dello sposalizio del mare veniva fatta risalire alla pace di Venezia e al privilegio,concesso da papa Alessandro III al doge Sebastiano ZIiani e ai suoi successori, di sposare il mare per confermare il predominio veneziano su di esso.L’intera cerimonia era imperniata su una metafora nuziale aperta a una duplice interpretazione. In evidente senso giuridico, innanzitutto nello sposalizio, il doge a nome dello stato veneto confermava la propria autorità sul mare proprio come, a norma del diritto matrimoniale veneziano, l’uomo acquistava signoria legale nei confronti della donna che aveva fatto ufficialmente sua moglie infilandole al dito un anello. A un substrato assai più arcaico rimanda il secondo ordine di riferimenti, quello antropologico in virtù dell’atto di conoscenza e conquista sessuale simboleggiato dallo sposalizio(e, ancor di  più esplicitamente, dall’ampolla di acqua santa svuotata nelle onde dopo la benedizione) il mare, elemento femminile della coppia, veniva assoggettato alla maschia volontà dell’uomo e reso, da infido e pericoloso, innocuo e benefico.Lo sposalizio del mare ricorda sotto vari aspetti un primaverile rituale pagano di fertilità, eccezionalmente rivolto non alla terra bensì alla distesa delle acque marine per impetrarne doni preziosi quali la prosperità dei traffici e la stabilità del dominio politico. Fin dal secolo XIV era invalsa la consuetudine di allestire in piazza San Marco, nel periodo dell’Ascensione per otto giorni dapprima, poi per quindici, una grande fiera, la fiera della Sensa.Regolarmente visitata dal doge, essa esponeva anche oggetti di notevole valore venale e artistico e rappresentava una tappa obbligata dell’itinerario veneziano dei più illustri ospiti stranieri come Beatrice d’Este, che nel 1493 vi aveva indugiato a lungo incantata “dalla tanta copia de vetri belli, che l’era uno stupore”. All’origine di questa usanza c’erano, con molta probabilità, ragioni del tutto pragmatiche.In questo  periodo Venezia era infatti affollata di pellegrini in attesa di imbarcarsi per la Terrasanta; essi di solito si trattenevano in città fino alla festa del Corpus Domini, quando alcuni di loro prendevano parte alla processione insieme al doge e ai senatori. Erano inoltre numerosi i fedeli che si recavano alla Basilica di San Marco per lucrarvi la speciale indulgenza essa pure concessa, secondo la leggenda, da Alessandro III. In senso figurato, però, anche la fiera poteva ritenersi coerente e concreta appendice della liturgia nuziale marina : tanta dovizia di ricche e pregiate mercanzie ben si  prestava a rappresentare il visibile frutto della feconda unione tra Venezia e il suo mare.

*IlBucintoro, la nave dogale da parata sempre utilizzata in questa e in altre occasioni di particolare rilevanza cerimoniale, come l’ingresso solenne delle dogaresse o l’accoglienza a ospiti di riguardo e le feste in loro onore. L’esistenza di una imbarcazione dogale di rappresentanza era attestata fin dal secolo XIII sebbene il nome Bucintoro ( busintoro in dialetto ) dall’incerta etimologia, non appaia subito : già all’inizio del secolo XIV  tale imbarcazione si distingueva per le sue dimensioni e il suo aspetto sfarzoso. Un nuovo Bucintoro, ornato a prua da una statua raffigurante la Giustizia, si costruiva nel 1449 un altro veniva inaugurato per la Sensa del 1526.

Tratto da “ VENEZIA “ di Giulia Genta ( Academia.edu )


Antonio Canal detto il Canaletto ( 1697-1768 ), Il Bucintoro al molo di Piazza San Marco

200 anni per Napoleone – 5 maggio 1821-2021

Un omaggio a Napoleone nei 200 anni dalla morte, che avvenne nell’isola di Sant’Elena il 5 maggio 2021.
Qui sotto il testo integrale della famosa Ode del Manzoni e la sua declamazione, recitata da Vittorio Gassman, e a seguire alcuni spunti musicali e coreutici per ricordarne la figura.

La Sinfonia n. 3 in mi bemolle maggiore Op. 55, fu composta da Ludwig van Beethoven fra il 1802 e 1804. Fu eseguita privatamente per la prima volta il 9 giugno 1804 (e in mesi successivi) e pubblicamente il 7 aprile 1805 diretta dal compositore. La sinfonia “Eroica” fu inizialmente scritta per Napoleone e rappresenta la sintesi di tutta l’aspirazione all’epos riscoperta negli anni della rivoluzione. In essa si avverte la volontà di tenere insieme la musica e la realtà che già era stata avvertita, se pur in forma primitiva, nella pièce à sauvetage, nella marcia, nell’inno e nel pezzo strumentale a programma.

Beethoven, che come Hegel aveva visto nel generale corso “cavalcare lo spirito del mondo”, gli indirizza una dedica, dedica che in seguito disconoscerà in un impeto di sdegno, strappando il frontespizio dell’opera, a seguito della sua incoronazione a imperatore. Proprio per questa delusione la sinfonia sarà quindi definitivamente intitolata (in italiano) “Sinfonia Eroica composta per festeggiare il sovvenire di un grand’uomo”.

Il dedicatario definitivo sarà il principe Lobkowicz, un aristocratico boemo appassionato di musica e buon violinista dilettante, che ospitò nel proprio palazzo la prima esecuzione.

l’Ode a Napoleone Bonaparte, che Schoenberg condusse a termine nel giugno 1942, dopo nove anni di permanenza sul suolo americano (vi era giunto nel ’33, abbandonando sdegnato l’Europa in seguito alle prime campagne antiebraiche e contro l’«arte degenerata»), e dopo aver assunto definitivamente, un anno prima, la cittadinanza statunitense. Il testo risale al 1814, quando Byron, alla notizia dell’ abdicazione di Napoleone e del suo esilio all’Elba, sfogò le proprie ansie di romantico «libertario» in una violenta e impietosa invettiva contro il tiranno caduto. «Byron rimase così deluso dalla rassegnazione di Napoleone che gli riversò addosso lo scherno più feroce: e credo di aver colto questo aspetto nella mia composizione», scrisse Schoenberg alcuni anni dopo. Ovviamente, nel testo byroniano, Schoenberg colse l’occasione simbolica, allusiva, che gli consentiva di colpire, nell’immagine della tirannide napoleonica, quella della tirannide hitleriana, auspicandone nel contempo l’analoga fine. Vi trovò anche l’occasione per tributare un atto di omaggio alla nuova patria, quasi a sollecitarla fiduciosamente nella fedeltà agli ideali di libertà della sua fondazione. Ciò quando Byron, nei versi conclusivi, sembra voler contrapporre alla figura di Napoleone quella di George Washington, «il Cincinnato d’ Occidente / colui che nessuna bassezza umana oserebbe odiare».

Dopo il Terrore una “furia ballerina” si diffuse in tutte le classi sociali e fece nascere una moltitudine di balli pubblici o privati; alcune danze di corte e danze popolari si fusero poco a poco in una creatività coreografica che detterà la moda prima nei salotti, poi nella corte dell’imperatore e infine in provincia e fino ai villaggi più nascosti. Non si balleranno più (o poco) alla corte di Napoleone i rigidi minuetti, tipici della corte dell’Ancien Régime, ma si danzeranno balli popolari adattandoli alla solennità e al decoro voluti dall’imperatore. Rimasero certi riti coreografici, come il “minutto di matrimonio”, ballato in onore della novella sposa nel giorno del suo matrimonio, che persistettero in tutte le classi sociali sino al XIX secolo.